- 01/04/2008
- Marco Ivaldo
- IV (2008)
- Saggio
Intendo e pratico la filosofia essenzialmente come filosofia trascendentale. Kant e Fichte sono, in particolare, i due “classici” che presiedono a questo cammino di pensiero in quanto, ciascuno a suo modo, hanno scoperto e messo a tema il “campo trascendentale”, ovvero posto le basi di una nuova ontologia del sapere, costituito da una concezione pratico-teoretica della ragione. Mi sono progressivamente riconosciuto nella prospettiva e nel campo di ricerche della cosiddetta “Scuola di Monaco”, animata da Reinhard Lauth con la convinzione di fondo che Fichte, sulla scia di Kant e di Descartes, aveva messo a fuoco una idea di filosofia non ancora adeguatamente colta nella sua virtualità innovante e che – liberamente ripresa e creativamente svolta – avrebbe potuto condurre il pensiero a liberarsi dalle strettoie e dalle unilateralità delle nuove e risorgenti versioni del “dogmatismo”. Resta per me decisiva la lezione del mio maestro genovese Alberto Caracciolo, che ha enucleato una concezione dinamica e concreta dell’apriori di Kant, in particolare con la sua teoria delle “strutture” e dei “modi” della coscienza. Devo però anche riconoscere un debito nei confronti di Luigi Pareyson, alla sua idea della filosofia come “riflessione alla seconda potenza”, per la quale la filosofia non allarga l’ambito del nostro sapere di esperienza, ma lo fonda e lo spiega. La filosofia non può perciò direttamente vertere sull’assoluto o sull’essere, ma sempre soltanto sulla esperienza e auto-esperienza che l’uomo è e ha. Ma è soltanto in questa esperienza che possono darsi un reale rapporto e coscienza almeno implicita dell’assoluto o dell’essere, un reale trascendimento di sé o un esistenziale rapporto con la trascendenza, una reale apertura ontologica.