Recensione a M. E. Moss, Il filosofo fascista di Mussolini. Giovanni Gentile rivisitato, Armando, Roma 2007

Il libro è tutto nella sua conclusione: “Tutta la brillante speculazione di Gentile, nei diversi rami della filosofia e delle discipline culturali culminava nel Duce. Che follia!”. Una simile asserzione non merita lo spreco di 150 pagine specie se l’intento dichiarato all’inizio del saggio è non solo di analizzare il sistema filosofico di Gentile, ma anche di delineare il contesto storico e culturale nel quale si formò l’attualismo. Il tema è ambizioso: può essere lo studio di una vita intera oppure materia per una compìta e diligente sintesi bibliografica, fatta per chi, totalmente digiuno dell’argomento, intenda avere un quadro d’insieme, generale ma non inesatto. In effetti, questo è l’obbiettivo didattico dell’autrice: “Questo lavoro si propone… come introduzione nuova e originale all’idealismo attuale di Gentile, considerato come un sistema in sé compiuto, per il lettore di lingua inglese” (p. 31). Di per sé sarebbe già un limite: le opere di compilazione, al di là dell’apparenza, non sono agnostiche, e finiscono comunque per sostenere una tesi, anche se di altri, mentre il lettore tende a presumere che un compendio scolastico sia obbiettivo, non orientato. Nel caso della Moss a questo limite intrinseco se ne aggiunge un altro, che è la presunzione dell’originalità: così il saggio vorrebbe essere, nel suo tono fortemente assertivo, sia una presentazione imparziale della storia e della cultura italiana del ventennio fascista sia un lavoro di ricerca, in cui la tesi dovrebbe emergere dalla realtà scrutata da un punto di vista superiore e distaccato. Ecco spiegata la superficialità dell’analisi: l’autrice dichiara che non intende misurarsi con la filosofia di Gentile usando le sue stesse armi, ma si limita a contestarne i presupposti secondo una visione di matrice illuminista, cioè dall’esterno: “Io parto dall’esperienza così come si presenta, e sono perfettamente consapevole che la realtà trascende invariabilmente le nostre percezioni e i nostri concetti. Riconoscere questa consapevolezza è necessario per dare ragione della ripetibilità delle esperienze, della verificabilità dei giudizi, e della comunicazione delle idee. Pertanto, la mia posizione potrebbe essere definita realistica, e non idealistica, come il neo-hegelismo assunto da Gentile” (p. 30). In questo modo l’autrice confonde una concezione del mondo, la sua, con le modalità per condurre una critica ragionata del proprio oggetto di studio: dall’esterno ella crede di valutare in modo obbiettivo un quadro storico e culturale dato per certo, che invece è già il frutto di un giudizio precostituito, lo stesso che ella stessa ammette di condividere e del quale non può che trovare conferma.