- 01/04/2006
- Daniel Catte
- II (2006)
- Recensione
Guardando alla varia e articolata vicenda della filosofia cattolica italiana di indirizzo neoscolastico, tanto al suo “programma” di ripresa e rivitalizzazione dell’eredità classica del filosofare, al suo intento cioè di operare una “ricostruzione metafisica”, quanto all’esigenza, che fu viva nei suoi migliori intelletti, di confrontarsi con le inquiete e frastagliate “esperienze” della cultura e del filosofare moderni e contemporanei, la teoresi di Gustavo Bontadini si impone alla considerazione con un rilievo indubbiamente particolare, sia per quanto riguarda la sua capacità di porsi in ascolto e di fare criticamente i conti con le istanze speculative della modernità filosofica, sia per quanto attiene all’intrinseca radicalità del suo progetto speculativo, notevole tanto per rigore d’impostazione che per acutezza di analisi e di svolgimenti. Alla filosofia di Gustavo Bontadini, e in convinta sintonia intellettuale con essa, Leonardo Messinese ha voluto dedicare questo suo ultimo lavoro, che si presenta come un contributo diligentemente ricostruttivo della proposta metafisica del filosofo milanese in tutto l’arco del suo più maturo svolgimento e, al tempo stesso, come un “invito” a quel “pensare metafisicamente” di cui Bontadini, secondo l’Autore, fu tra i più lucidi e rigorosi maestri, e non solo nell’ambito della filosofia italiana di orientamento cattolico. Alla teoresi bontadiniana, delineata come una “metafisica della trascendenza” fondata su di una rigorizzazione dell’istanza teologico-razionale classica di una “dimostrazione dell’esistenza di Dio”, l’Autore dà il suo personale consenso, nella convinzione che “la semplicità e la radicalità” con le quali in Bontadini si trova ad essere posta la “questione metafisica” essenziale, quella, cioè, relativa alla “giustificazione del dover trascendere l’essere dell’esperienza” (p. 69), rappresentino, anche al di là degli svolgimenti concreti e degli esiti conclusivi dell’analisi, l’autentica “lezione di metodo” impartita dal filosofo milanese, che così viene sintetizzata da Messinese nei suoi “momenti” essenziali: «1) dato fenomenologico (= esperienza); 2) problematizzazione dell’esperienza; 3) soluzione del problema nel trascendimento dell’esperienza» (p. 67). E così conclude: «In qualche modo, è come se ci venisse a dire che il filosofare ha una sua “misura”, dalla quale non si deve deviare né per eccesso (= disconoscimento del vero “attuale”), né per difetto (= dogmatica affermazione del vero “inattuale”, di ciò che trascende il dato» (ibid.). In quanto ricostruzione dell’itinerario bontadiniano alla metafisica, il volume di Messinese può essere letto come un’utile introduzione alla vasta produzione storico-filosofica di Bontadini, capace, pur nella sua brevità, di trasmettere una non generica notizia dell’ampiezza di orizzonti in cui si venne svolgendo, nell’arco di molti decenni di attività, la costruzione teorica bontadiniana. Mostrare come quest’ultima, oltre che nella ricerca di un sempre maggiore rigore nella fondazione dell’organismo proposizionale in cui si realizzava la pura teoreticità del discorso metafisico (“discorso breve”, come amava ripetere Bontadini), facesse perno su, e si saldasse con, un’acuta e robusta ermeneutica della storia della filosofia (in particolare moderna e contemporanea), è forse il merito principale del lavoro di Messinese. Alla lettura bontadiniana della filosofia moderna e contemporanea, infatti, sono dedicati i primi quattro capitoli del volume, che riescono a dare un’idea non estrinseca sia del metodo di lavoro del Bontadini storico della filosofia sia del “filo conduttore” speculativo che guidava il filosofo milanese nel suo sforzo di comprensione storico-teoretica dei classici della tradizione filosofica. Quanto al metodo, Messinese fa proprie alcune indicazioni di Evandro Agazzi (che di Bontadini fu allievo), rilevando, prima di tutto, «“l’accuratezza documentaria e filologica” della ricerca bontadiniana» (p. 28) che garantiva al lavoro di Bontadini uno spessore autenticamente storico; indicando, poi, la peculiarità del metodo bontadiniano nell’analisi di struttura, metodo che «consiste essenzialmente nel mostrare quali siano i “principi”, al limite il principio fondamentale, a partire dal quale si dà ragione del concreto determinarsi di questa o quella filosofia. Tale metodo, inoltre, lungi dal costringere i vari sistemi filosofici ad un’innaturale rigida “coerenza”, consente di mettere in luce, invece, attraverso delle “puntuali” analisi dei nuclei decisivi di un’opera filosofica, proprio le contraddizioni interne dei vari sistemi e i presupposti ingiustificati, eppure effettivamente operanti, nell’esposizione delle tesi dei vari filosofi» (pp. 28-29). Ma qual è il “filo conduttore” e quali i risultati delle indagini storico-filosofiche che Bontadini dedicò alla filosofia moderna? Il primo, osserva Messinese, «è costituto dalla “centralità speculativa” che il problema gnoseologico viene ad acquisire nella filosofia moderna » (p. 30), mentre i secondi, nel loro senso più generale e come risultato globale delle singole ricerche che ne compongono la trama, si condensano nella delineazione di un quadro unitario e coerente dell’intera vicenda filosofica moderna e contemporanea. In questo senso, rileva giustamente l’Autore, non fu una semplice variazione linguistica quella operata da Bontadini con la scelta, per designare la propria posizione filosofica, del termine di «neoclassica», preferito a quello più tradizionale di «neoscolastica». La «novità» espressa dal prefisso «neo», infatti, stava ad indicare per Bontadini che il nucleo epistemico, il plesso di principi (o, in ultima istanza, il principio, quello di non-contraddizione cui tutti gli asserti speculativi dovevano esser reducti come al fondamento logico-ontologico della loro incontrovertibilità) della metafisica classica, in cui per lui si articolava la costruttività teoretica del logo filosofico, doveva criticamente e non estrinsecamente agganciarsi al risultato della filosofia moderna. Risultato che egli credeva di poter individuare nella complessa vicenda dell’ idealismo moderno, e in particolare in quella che considerò sempre la sua forma più radicale e conseguente, l’idealismo attuale di Giovanni Gentile. Perciò, scrive Messinese, «si deve essere in grado di cogliere tutta l’importanza di quel “neo”, che ci parla del ruolo positivo attribuito al compimento idealistico dell’intero ciclo del pensiero moderno e dell’attenzione estrema riservata alle istanze positive del pensiero contemporaneo» (pp. 103-104). La possibilità di una ri-affermazione della metafisica classica, in quella che Bontadini interpretava come la temperie “problematicistica” del filosofare contemporaneo, trovava infatti alimento nella peculiare lettura che il filosofo milanese dava del ciclo della filosofia moderna come ciclo gnoseologistico, dominato cioè dalla problematica gnoseologica e dal dualismo, che di essa costituiva il presupposto, di essere e pensiero, prospettati come affetti da una originaria, reciproca “estrinsecità”. Conseguenza di tale presupposto è quindi, scrive Messinese, «la tesi gnoseologistica [in base alla quale si sostiene] che noi non conosciamo la “realtà” (intesa, in tale posizione, come la natura “esterna” alla mente), ma le nostre “rappresentazioni di suddetta realtà» (p. 39 n. 11). Il toglimento di tale presupposto, in quanto teoreticamente ingiustificato, e la posizione, criticamente fondata, dell’identità intenzionale dei due “termini” della relazione (pensiero ed essere, appunto), era visto da Bontadini come l’esito conclusivo della parabola del pensiero moderno, il cui ultimo atto era ai suoi occhi rappresentato dall’attualismo gentiliano. Per Bontadini dunque, spiega Messinese, «vista nel suo esito ultimo, la filosofia moderna giunge a togliersi come filosofia “della conoscenza”, cioè come quella che pone quale suo problema pregiudiziale la questione delle capacità conoscitive del soggetto umano, e in tal modo, il venire in chiaro del dogmatismo inerente alle costruzioni metafisiche del pensiero moderno – a ragione avvistato da Kant – non conduce necessariamente all’impossibilità di un “sapere” metafisico. Infatti, con la riconquistata identità intenzionale del pensiero con l’essere – affermata dal pensiero post-kantiano – viene a cadere la pregiudiziale negativa circa la metafisica come “scienza” e, così, questa viene ricostituita nella sua possibilità» (p. 38). La metafisica, nella concezione che ne possedeva Bontadini, contemplava uno strutturale riferimento all’esperienza, era una “metafisica dell’esperienza”. Più specificamente, riguardata nel suo puro lineamento formale, la metafisica costituiva per Bontadini una mediazione teoretica del dato esperienziale alla luce dell’originaria idea dell’Assoluto ontologico e governata nel suo strutturarsi dal principio di non-contraddizione nella sua piena estensione logico-ontologica. In questo senso, la possibilità di esecuzione rigorosa del compito costruttivo proprio del logo metafisico era per Bontadini in un essenziale rapporto di dipendenza dall’elaborazione di un concetto critico di esperienza, elaborazione cui, nella convinzione dell’acuto filosofo, aveva “oggettivamente” atteso, nello svolgimento del proprio corso, il pensiero filosofico moderno. E’ così che la nozione di Unità dell’Esperienza, centrale nella speculazione bontadiniana, oltre che nella sua funzione epistemica rappresentata da suo essere uno dei due “piloni” (quello “fenomenologico”) su cui poggia l’inferenza metafisica (l’altro essendo costituito dall’istanza dell’incontraddittorietà, espressa dal logo), può essere riguardata come lo sfruttamento teoretico, da parte di Bontadini, del portato critico della speculazione moderna, la cui “eredità”, essenzializzata nella lettura datane da Bontadini, entra di diritto a intessere la trama del discorso metafisico. La peculiarità e l’importanza della lettura bontadiniana della modernità filosofica, scrive Messinese «non sarà mai sottolineata abbastanza»: «mentre di solito le altre interpretazioni rimarcano la netta opposizione tra il pensiero moderno e la metafisica classica, Bontadini mostra la profonda revisione che quel giudizio deve subire. Evitando facili irenismi o confusioni di sorta, egli entra profondamente nei “presupposti”, nelle “ragioni” e nelle “movenze” della filosofia moderna, accogliendone le istanze positive e senza mancare di criticarla, ma operando sempre, nella sua critica, dall’interno» (ibid.). In questo modo, conclude Messinese «la riproposta della metafisica classica non si pone semplicemente “accanto” o “di contro” alla filosofia moderna, ma quale “soluzione speculativa del “problema” metafisico al quale essa stessa perviene al termine del suo processo» (ibid.). In Appendice al volume Messinese ripubblica tre sue recensioni critiche intorno alla questione dei rapporti tra metafisica, scienza e fede, apparse in anni passati sulla rivista «Aquinas», nella convinzione che esse possano rappresentare «un utile complemento, sia per i temi trattati, sia per il modo di affrontare le questioni, anche qui in dialogo e, talvolta in aperta discussione con alcuni autori particolarmente significativi a riguardo del dibattito contemporaneo sulla metafisica e spesso con diretti riferimenti al pensiero bontadiniano» (p. 24). In Chiude il volume un’utile, anche se dichiaratamente non esaustiva, bibliografia degli scritti di e su Gustavo Bontadini, che aggiorna, per il periodo seguente al 1975, quella contenuta nel vol. II, pp. 543-599, degli Scritti di filosofia in onore di Gustavo Bontadini, Vita e pensiero, Milano 1975.