- 01/04/2006
- Andrea Bellocci
- II (2006)
- Recensione
Singolare, già nella forma, l’ultima opera di Gianni Vattimo: non è scritta da lui, ma da Piergiorgio Paterlini, e per questo non può definirsi un’ autobiografia, né, d’altronde, si tratta di una biografia, in quanto Vattimo non solo la controfirma, ma è egli stesso che parla in prima persona, rivolgendosi e raccontandosi peraltro a Stefano, l’attuale (si suppone) compagno del filosofo torinese. È dunque nel segno del colloquio, della conversazione che va letto quello che, altrimenti, sembrerebbe essere un mero monologo. Un’ “(auto)biografia”, così la definisce Paterlini nella prefazione: una sorta di “monologo dialogico” verrebbe da dire. D’altronde, è proprio nel segno del dialogo e della conversazione che, secondo Vattimo, l’Essere si dà a noi: «Se l’Essere accade nella storia, accade nelle lingue storiche, dunque nel linguaggio, nel dialogo degli uomini, nella conversazione umana» (p. 131). Già questo, che non è un mero intreccio, una “trovata”, ma una vera e propria fusione tra forma e contenuto, vita vissuta e convinzioni espresse, costituisce un indizio, una buona ragione per prendere davvero sul serio la dichiarazione dell’autore su quanto vita e filosofia non debbano essere disgiunte: «La filosofia, da sempre, per me deve essere utile, è strettamente intrecciata alla vita» (p. 126). Risulterebbe a questo punto fuorviante leggere in chiave maliziosa questo tema dell’ Essere, ovverosia in forma e tonalità altisonanti e pompose, quasi che il dialogo tra Vattimo e Paterlini, o tra Vattimo e Stefano, fosse di per sé l’apertura di un paradigma, di un nuovo orizzonte epocale. O forse è così, forse questo colloquio è concepito davvero come l’apertura di un orizzonte: ma, allora, bisognerà fare attenzione e vedere bene se, per avventura, l’ironia (personale e filosofica) di Vattimo non abbia preceduto la facile “malizia”: l’Essere di cui parla Vattimo, com’è ormai noto a tutti coloro che abbiano una qualche familiarità col “pensiero debole”, si presenta con i tratti di indebolimento, alleggerimento, derealizzazione e ironia tipici della post-modernità. Basti leggere, a riprova di ciò, l’incipit, in cui Vattimo inaugura (e, occorre aggiungere, sceglie di inaugurare la narrazione proprio così) i suoi settant’anni con una capocciata (letterale, non metaforica, tiene a specificare l’ autore).